Un tempo per crescere: prevenzione, diagnosi e presa in carico del disagio psichico in età evolutiva
AIPPI il 3 dicembre 2018 ha partecipato al Seminario “Bambini e disabilità: come interpretare l’aumento dei casi” organizzato dall’Assessorato all’Educazione e Istruzione del Comune di Milano in occasione della Giornata Internazionale delle persone con disabilità.
Qui di seguito l'intervento tenuto da Donatella Fiocchi e Patrizia Gatti.
Un tempo per crescere: prevenzione, diagnosi e presa in carico del disagio psichico in età evolutiva
Prima di tutto ci siamo poste una domanda: quando un bambino è disabile? Perché da un certo punto di vista un bambino è per forza “disabile” cioè non ancora abile su tantissime “abilità” (su tantissimi aspetti) se con questo ci riferiamo alle capacità adulte che ognuno di noi, dalla nascita in poi, deve arrivare a costruire. Quanto diciamo non vuole assolutamente essere una provocazione ma solo un modo per mettere sotto i nostri occhi un aspetto che forse troppo spesso gli adulti danno per scontato. I bambini non sono “capaci” e sono gli adulti a dover insegnare loro come diventarlo.
Questa affermazione è perfino banale, ma sembra sempre più difficile insegnare loro, sia a casa che a scuola: non ubbidiscono, non ascoltano, hanno comportamenti che gli adulti non riescono a fermare e a formare. Allora un bambino “disabile” è un bambino che ha qualcosa che non va, ma cosa?
Crediamo che questa sia una domanda troppo dolorosa da farsi coscientemente; il dolore che questi comportamenti “fuori posto” trasmettono agli adulti, genitori e insegnanti, consapevoli anche del compito che devono svolgere è spesso troppo difficile da sostenere.
Essere e restare in contatto con il dolore mentale che le difficoltà dei bambini ci trasmettono, dare loro e concedersi il tempo necessario alla comprensione, richiede una forza e una solidità sempre più spesso impossibili da trovare. Ne conosciamo la fatica come mamme, come nonne, come terapeute.
Così nelle situazioni meno complesse i genitori richiedono questa capacità alla scuola e gli insegnanti, invece, ai genitori con l’idea che se l’uno o gli altri facessero bene quello che devono fare, quella sofferenza non ci sarebbe. Una situazione che invece di favorire lo scambio e la collaborazione necessari crea un conflitto doloroso in più.
Ma i casi più complessi sembrano aumentare facendoci sentire sempre più impotenti; diventa difficile ricordarsi che i bambini stanno facendo una strada difficile, non hanno ancora un senso di identità, l’Io e l’apparato psichico pensante sono ancora fragili o si stanno costituendo.
Crediamo che sia qui che nasce il bisogno di una diagnosi.
Di fronte al senso di impotenza e alla mancanza di comprensione un nome, una definizione sembra mettere tutto a posto. In realtà invece un nome diventa molto spesso solo una etichetta che allontana dalla comprensione.
Concordiamo con quanto il dottor Novara sottolinea in un suo articolo: la scuola rinuncia al suo “compito educativo” e anche i genitori possono demandare così tutta la responsabilità allo specialista rinunciando al proprio compito e conservando per sé solo, quando è possibile, quegli aspetti più gratificanti di una relazione infantilizzante priva dei necessari limiti indispensabili per crescere.
In un seminario interno alla nostra Associazione una collega, Aurora Gentile, ha osservato che il nostro contesto sociale attuale è gravato dal peso di tre culture, tutte negative per quanto riguarda una buona capacità adulta di capire, educare e far crescere un bambino sano: la cultura degli esperti, la cultura della rapidità, la cultura del risultato.
“L’esperto: squalifica i genitori ma anche gli insegnanti, perché ci sarebbe un esperto per ogni problema del bambino, detentore di una risposta specifica e adeguata, cosicché nessun altro deve più pensare;
la rapidità: squalifica il tempo maturativo, impedisce di accettare che ci siano diversi tempi di crescita, valorizzando la diversità; il risultato: squalifica i processi di apprendimento, cioè i processi qualitativi che sono importanti come i risultati in quanto tali.”
Queste tre culture sono attualmente molto invadenti e pervadono tutti i rapporti con i bambini creando una situazione in cui sono sfumate le frontiere tra il normale e il patologico con il risultato di tendere alla normalizzazione sistematica da una parte e alla patologizzazione di fenomeni normali dall’altra.
In questo processo si perde di vista la funzione più importante degli adulti, sia genitori che insegnanti: trasformare la richiesta di DIAGNOSI in DOMANDA, un sintomo in una storia.
Sempre più spesso, anche ai Servizi viene chiesta una prestazione veloce, una risposta più in linea con aspettative burocratiche (certificazioni e espletamenti formali) invece di una concreta e professionale risposta di prevenzione e di reale presa in carico del disagio psichico.
C’è una crescente pressione alla velocità, all’esito visibile anche se effimero, al passare oltre o “al non far passare”. Come poter sostare con l’altro nel dolore mentale e darsi il tempo di una possibile elaborazione?
Non stiamo certo dicendo che si possa fare a meno della diagnosi, ma le attuali diagnosi troppo spesso si limitano ad essere una codificazione, un lungo elenco di comportamenti riuniti in un gruppo, una lunga serie di sintomi, sicuramente esaustiva ma che pone l’accento solamente sugli aspetti esteriori, seppure complessi, di un fenomeno come le difficoltà di apprendimento che, a volte, comporta anche modificazioni strutturali, temporanee o meno.
Questo modo di procedere della psichiatria e neuropsichiatria moderna presenta un importante aspetto negativo: quello di perdere così di vista le numerose altre componenti essenziali. In altre parole “Le molte, complesse sfaccettature di quello che, in modo forse troppo univoco, siamo abituati a chiamare disturbi di apprendimento”.
In realtà anche nella medicina l’approccio tradizionale ha sempre previsto un’accurata comprensione del paziente, della sua storia, del suo sviluppo, dell’ambiente sociale in cui è vissuto, mentre il nuovo approccio, che sembra nascere dalla necessità di guadagnare una maggiore precisione nella diagnosi e quindi migliori possibilità di cura, ha invece fatto perdere di vista la prospettiva globale.
I problemi vengono così incasellati e affrontati con soluzioni codificate, quelle che in ambito sociale, ma purtroppo spesso anche in quello psicologico, vengono definite “le buone prassi” diventando una applicazione meccanica di modalità di intervento troppo generiche per raggiungere davvero dei risultati perché nate in altre situazioni che hanno molto spesso in comune solamente aspetti formali.
Con ciò non intendiamo affermare che sia tutto negativo; le diagnosi “codificate” permettono i confronti fra i vari studi e pazienti, ma in realtà si tratta di un confronto meno “obiettivo” e decisivo di quanto si desidererebbe ottenere perché l’interpretazione dei vari dati, oltre a non essere così univoca per la complessità, appunto, delle condizioni individuali, la cui differenziazione diagnostica non riesce ad essere così precisa, spesso non è definibile nettamente proprio per la sovrapposizione di sintomi e di sindromi.
Il modello teorico psicoanalitico, che noi proponiamo e col quale lavoriamo, specifica come anche le difficoltà più complesse della mente possano non solo essere comprese ma anche curate soltanto se si può comprendere il significato profondo che situazioni e vicende specifiche hanno avuto per quell’individuo e per la sua evoluzione.
Ovviamente questo comporta la necessità di ricostruire la storia dello sviluppo del bambino, considerando in modo particolare tutti gli eventi dell’infanzia e, soprattutto, della primissima parte di essa che sappiamo essere fondamentali per l’influenza che hanno sia nella costruzione della mente e del suo funzionamento, quindi anche dei comportamenti, che dei rapporti con i genitori, reali ma anche con le loro immagini interne, non solo inizialmente, ma per tutta la durata della vita.
Il nostro metodo diagnostico va a cercare la profondità sulla superficie del sintomo, a cercare lo sviluppo storico, la storia di quel bambino prima del sintomo: chi è quel bambino? chi era quel bambino? Come funziona la sua famiglia e che posto occupa lui all’interno?
Troppo spesso nel percorso diagnostico si va cercando quello che non funziona invece di cercare di capire come quel bambino funziona, come noi, specialisti e insegnanti, lo possiamo aiutare.
La diagnosi che “etichetta e codifica” chiude il pensiero e il percorso, non ci riguarda più capire, qualcun altro ci dirà come fare. La diagnosi vera invece deve poter aprire un pensiero e un percorso, aiutarci anche ad adottare un modo di pensare che sospenda radicalmente ogni pregiudizio, e, nel caso della nostra clinica infantile, permetta di cercare di capire aprendosi alla sofferenza del bambino in quanto tale.
Il nostro metodo di lavoro, basato su quella che viene definita “Osservazione di tipo psicoanalitico” e che nasce da una lunga preparazione attraverso l’esperienza dell’Infant Observation, offre questa possibilità, come abbiamo potuto constatare sulla base delle numerose esperienze di cui abbiamo avuto riscontro anche in un breve Corso tenuto in due plessi di nidi e Scuole materne del Comune di Milano.
Crediamo perciò che ci siano due livelli di intervento complementari e integrabili:
quello di un aiuto ai genitori, sostenendoli nel loro compito e nella loro fatica di affrontare le sofferenze che lo sviluppo del bambino proietta su di loro, aiutandoli a ritrovare quella capacità educativa e vicinanza ai problemi infantili che il loro ruolo comporta;
quello di un aiuto agli insegnanti, sostenendoli nell’affrontare il senso di sfiducia di fronte a bambini pesanti e apparentemente irraggiungibili, aiutandoli a individuare i segnali e gli elementi indispensabili per la comprensione di ogni situazione che li metta in difficoltà, distinguendo gli aspetti realmente patologici, e bisognosi perciò di un aiuto specifico, da quelli semplicemente diversi e recuperabili.
14/10/2019