Il volto con la mascherina attraverso gli occhi di un bambino
Le mascherine ormai da mesi coprono i nostri volti, e sarà così ancora a lungo.
Ci siamo chieste durante i Seminari di Infant Obervation come i bambini - quelli molto piccoli - possano percepire, vivere e decodificare questi nuovi visi.
Sappiamo dall’Infant Research che nei neonati la preferenza per i volti umani è innata ed estremamente precoce.
Già a poche ore dalla nascita, un neonato è in grado di riconoscere il volto della propria mamma e discriminarlo da quello di una persona non familiare.
L’attenzione selettiva per il volto umano nella sua interezza ha un valore fortemente adattivo, che facilita la relazione e il legame; in definitiva permette di sopravvivere.
In questi giorni ha fatto il giro del mondo la foto di un neonato che, appena nato, tira la mascherina al dottore che l’ha fatto nascere. Un gesto intenzionale? Non lo sappiamo, ma comunque ci riporta al bisogno di volto intero, con tutti i suoi tratti essenziali: occhi, naso e bocca.
Francesca Stolfi, studentessa Master M7 al Terzo anno, ci accompagna in modo poetico e onirico alla scoperta dell’immaginario mondo di un bambino piccolo alle prese con i volti ‘mascherati’.
Questo breve racconto ricorda a tratti la descrizione della vita soggettiva di Joey nel bel libro di Daniel Stern “Diario di un bambino”, che in modo insolito e affascinante descrive l’universo incantato e misterioso della mente di un bambino.
Patrizia Gatti,
docente Infant Observation M7
Con la mia bussola navigo il tuo viso.
Di notte gli occhi chiusi sono colline. Di giorno, aperti, sono specchi d’acqua abitati da due pesciolini neri che guizzano. Le pupille sono delfini che seguono la mia rotta quando è facile navigare. Diventano mostri marini quando le acque si agitano.
A volte, l’acqua dal bianco lago esonda e dalle ciglia scende a rigoli lievi o vorticosi a formare una cascata. Non è facile guadare i precipizi, si ha paura, come con i mostri marini. Di questi tempi viene voglia di tornare sulla terra ferma e salire sulla vetta più alta: il naso, quella prominenza che forma un punto sul viso, poco soggetto a cambiamenti repentini, apparentemente fermo. Da quella altezza, quando c’è quiete, si osserva il panorama tutto attorno. Si vedono bene le arcate delle sopracciglia che si stagliano ai pedi della fronte segnata da strade da percorrere più o meno profonde ma sempre dritte, da fare a saltelli. Si vedono le guance, spazi scoscesi in cui rotolare a valle verso la bocca alle pendici delle fosse nasali di cui si percepisce il soffio tiepido.
La bocca come un sipario si apre e si chiude si estende e si restringe lasciando comparire gemme preziose o lingue infuocate, facendo melodie o frastuono. Vi si creano miriadi di scene spesso a coronare quanto promesso in anteprima dagli occhi. Non sempre però.
Ad un tratto scopro anche il mio viso nel tuo. Ti assomiglio.
Questa topografica, mi è familiare la riconosco in ognuno decifrandone i messaggi nei colori e nel clima delle stagioni, navigo a vista miriadi di questi paesaggi che sono i visi. Ho riposto la bussola, conosco le loro mappature.
Ora una tempesta improvvisa, davvero insolita, agita tutto il mio mondo. Temo di perdere ogni orientamento, le mappe volano via vorticando nel vento, la bussola cade con tutto il suo peso rotta in mille frammenti. I paesaggi si rannuvolano, si capovolgono, i delfini nei laghi sembrano avere perso la rotta e il sipario si chiude. Attorno ai visi compaiono delle coperture e molta parte del mio universo diventa segreto e indecifrabile.
C’è uno strano silenzio.
Dopo un attimo di primo smarrimento di fronte al mistero di queste coperture che sbarrano i percorsi, trovo dei rifugi luminosi e caldi dove sembra che tutto si ricombini e torni intero. Me lo sussurrano gli occhi di quei visi che, di nuovo liberi, ritrovano il loro speciale accordo con la bocca.
Fuori dai rifugi però tutto torna indecifrabile e io vorrei strappare via dai visi quelle bende, afferrarle con le mani per ritrovare i miei paesaggi. Tento di farlo ma mi viene impedito, addirittura mi viene detto di stare lontano.
Ascolto allora i suoni che emette la bocca dietro le bende, sono ovattati. Penso che gli occhi siano tristi, nostalgici della compagnia di accordi con la bocca. Anche la vetta prominente del naso è coperta e gli occhi sembrano sporgere più in avanti, esposti in solitudine.
Chissà come si sente la bocca, mi chiedo, quando suona così senza che se ne possa vedere la mimica. Come fanno a capirsi adesso i visi fra di loro.
Oltre ai rifugi ci sono altri spazi dove tutto sembra ricomporsi. Penso che siano i momenti più conturbanti per me che ho l’impulso bruciante di ritrovare anche il profumo e la concretezza dei visi interi.
Alcuni infatti compaiono all’improvviso come fantasmi, divengono immagini proiettate in una scatola che posso girare in mille direzioni a mio piacimento. All’inizio mi diverto sono tutto entusiasta ma poi sento un punto di dolore. Tocco un oggetto duro e freddo e una nostalgia prepotente mi conduce a spegnere tutto ad abbandonare a terra quel luminoso luna park dove ti ho perso. Poi lo riprendo.
Ti cerco intero mentre faccio finta che sei un cowboy con la pistola, che sei l’uomo nero, che porti un becco da papera, che è spuntato un prato di fiori rossi, o che ,su di te ,hanno apparecchiato con una tovaglia a quadretti, che luccichi. Che un fantasma è sparito nello schermo buio e va esplorare il mondo delle ombre, che aggiungo una nuova rima alla canzone che mi è arrivata attraverso il soffio delle labbra del primo viso in cui mi sono perso.
“Il merlo ha perso il becco come farà a beccar, il merlo ha perso il becco come far a beccar, il merlo ha perso il becco povero merlo mio come farà a beccar, come farà a beccar,
Il viso ha perso la bocca come farà a cantar, il viso ha perso la bocca come farà a cantar, il viso ha perso la bocca povero viso mio come farà a cantar, come farà a cantar”.
Francesca Stolfi
02/11/2020